3di3 - Capitolo 3 - Atto II

« Porcaputtanaèunorso! » uscì tutto d’un fiato dalla bocca del vegliardo.
Quando l’organismo ha bisogno di risposte e di decisioni comportamentali per sopravvivere a volte subitanee [cambiamenti/eventi inaspettati] si parla di tempi infinitesimali, e l’amigdala [parte del cervello che gestisce le emozioni ed in particolar modo la paura] riveste un ruolo fondamentale nella conservazione della specie, poiché effettivamente, con velocità e precisione, la zampata dell’orso cacciò il cannone, pronto a tuonare, dalle mani del sopracitato vecchio, mentre questi lo fissava negli occhi come un bimbo avrebbe fissato l’uomo nero la notte in cui avesse deciso di uscire dall’armadio.
Sebbene le similitudini tra uomo e orso possano essere svariate, a cominciare da la fitta peluria, di cui il vetusto agente in mattinata si era ben preoccupato di sbarazzarsi il mento, agli occhi del giovane, i due faccia a faccia, erano statue silenti, fuori scala l’una dall’altra, ma da la medesima mole prominente.
Mano e pistola non si osavano a sparare, maledetta accademia! avevano letto troppi articoli, troppi comma, troppi paragrafi per ignorare che rompere il silenzio con un colpo rivolto ad un orso era severamente vietato:
sedato e immobilizzato”, quella era la prassi.
Con uno scatto delle gambe degno del miglior parkourist, il ragazzo si lanciò addosso all’ufficiale inerme, per poi capitombolare qualche metro più in là: l’azione scatenò un tic nervoso della bestia, la quale fece calare la zampa come una ghigliottina alle loro spalle. « MERDA, LA GAMBA! », centrata in pieno, troppo lunga per mancarla « SPARAGLI CAZZONE! CHISSENEFREGA CHE  E’ VIETATO! », l’orso puntava il duo maldestro e il ragazzo, adesso, nel vederlo partire alla carica, avrebbe voluto fare fuoco, ma durante il volo d’angelo doveva aver perso la pistola perché fra le mani non stringeva che una manica di giacca strappata dalla casacca del suo superiore. « SOTTO DI ME! », continuava a urlare l’ufficiale azzoppato, « LA PISTOLA! SOTTO LA MIA SCHIENA! » e manco il tempo di metterci il braccio che uno schianto di luce illuminò a giorno la fitta boscaglia.
Il frastuono fu talmente roboante da coprire il terremoto che ne era scaturito e la creatura, terrorizzata, fuggì nella direzione opposta lasciandosi appresso un duo guerriero privo di fiato finalmente libero di stramazzare al suolo. Il cielo era caduto “Per Toutatis!”, caduto in Terra, non c’era altra motivazione valida a giustificare tale fracasso, a parte una potenziale esplosione mini-atomica!
Si dà il caso però che il Molise non fosse affatto entrato in guerra nelle ultime quarantottore e che la volta celeste sembrasse posare ancora indenne sopra il capoccione regionale; eccezion fatta per una misera porzione di infinito, composta di materia stellare, che avendo deciso di invadere la Terra sotto forma di bolide ardente, non potè fare a meno di notare un piccolo pezzetto di bosco messo a qualche centinaia di metri dalla sterpaglia su cui la nostra non-più-belligera coppia era crollata da qualche minuto buono.


« Aiutami ragazzo, la gamba sembra rotta. » e tese il braccio verso le stelle.


Il giovane, che aveva il suo ancora sotto il dorso dell’uomo, stringeva fra le dita la pistola senza avvertirne la presenza: a causa della compressione dei nervi i collegamenti con l’arto fantasma erano fuori-uso dalla spalla in giù e, una volta in piedi, non si accorse di quel tentacolo privo di vita che gli rimaneva sorprendentemente appeso al tronco. La mano “buona” afferrò il maggiore con l’eleganza tipica e traballante dell’ubriacone, che nel pieno dell’ebbrezza, avesse dovuto raccogliere da terra il proprio cappello scalzatogli dal vento; ad ogni sbandamento del subalterno il vecchio temeva il peggio per la propria gamba e per paura di ricadere su quell’asta spezzata si attaccò d’impulso all’arto guasto del ciucco, che tradito dal dolore, spinse il dito sul grilletto conficcandosi una pallottola nel piede.
Buio.

Che ansia,                                                                                                   l’orso,
che succede?                                                                                              le fiamme della fenice,
angoscia e saliva sono tutta una pasta,                                              LO SQUALO,
che caldo,                                                                                                   cazzo, mi fa male il piede!
panico e gusto di ferro,                                                                           Proprio stasera che eri libero?
rosso, è tutto rosso,                                                                                  mamma,
sembra di prendere fuoco,                                                                     Lara Fenice,
Aiutami ragazzo,                                                                                      non era il suo nome da nubile?
dove sono?                                                                                                  l’aria è così calda, mi bruciano i polmoni,
Lara Ba,                                                                                                      prima l’esplosione,
come mia madre!                                                                                     poi ho premuto il grilletto,
fa troppo caldo qui,                                                                                 Lara Ba-Fenice...
mi fa male il piede,                                                                                  Ti scopi mia madre!

« TI SCOPI MIA MADRE, MALEDETTO BASTARDO! » il ragazzo aprendo gli occhi si era reso conto di avere entrambe le mani infilzate nella giacca del collega; tuttavia il pezzo d’uomo doveva essere svenuto dal dolore, dopotutto il novellino gli era caduto dritto-dritto sulla gamba “spezzata” e, come se non bastasse, le fiamme del cielo avevano “infettato” una buona parte della foresta: con tutto quel fumo attorno non c’era da meravigliarsi se nonostante schiaffi e strattoni il vecchio non riusciva a riprendere conoscenza.
Il piede massacrato, una valle di lacrime.
Lacrime rosse che ribollivano su quella terra arsa dal fuoco, terra in cui la pallottola era andata a finire dopo aver attraversato quel giovane tarso come una biro trapasserebbe un foglio di carta. In quelle condizioni non poteva certo pensare di alzarsi in piedi, l’unica era di avanzare carponi fino ad un posto sicuro dove poter mettere un tappo a quel foro sanguinolento, impossibile trascinarsi dietro il gigantone svenuto.
Sdraiato a pancia in giù, aderente il terreno, con la testa alta per guardare avanti, faceva forza prima sulle ginocchia poi sui gomiti procedendo con “passo del leopardo”. « La terra è finita, andate in brace! » gli parve di sentir gridare ai rami freschi che scoppiettavano sulla caldarrostiera, mentre una seconda voce, molto più roca e profonda si faceva sempre più forte. « Un altro proiettile dal cielo? » pensò alzando la testa, ma un genere diverso di borbottone era intento a solcare il blu più blu.

<<SPLASH!>>

I soccorsi aerei avevano centrato le fiamme vicino al bimbetto che, come si sual dire, venne buttato via con tutta l’acqua sporca giù per la collina.
Rotola, schivalo, scivola,
sassi e detriti in fiamme,
scivola, parati, rotola,
la selva infuocata cominciava ad essere lontana,
e il monticello dava l’impressione di non avere mai fine.
Doveva aver deragliato per quasi un chilometro quel treno in corsa quando da ultimo incontrò il tronchino del binario morto dritto sulla schiena.
Il dolore lo paralizzò sul colpo, « Un forte trauma, come una caduta da cavallo o un incidente stradale, » sosteneva il docente di medicina sul campo, « può portare alla rottura di una o più vertebre », le aveva sentite, due sicuro, la terza forse era solo suggestione; come se non bastasse la pelle gli scottava pruriginosamente a causa delle percosse ricevute durante la lunga strisciata, e le ossa, 206 spine curve e angolose conficcate sotto la cute che urlavano una ad una, tantoché lo sbirro dolorante, avvolto da un buio più pesto di lui, si lasciò scappare un « Pòrcoddìo! » nella speranza che il supremo, sentendosi nominare, si accalappiasse ogni male, dall’invocatore al creatore senza battere ciglio, d’altro canto però, a causa delle guance gonfie, ciò che ne usci fu un suono talmente soffocato da essere imperscrutabile persino per una divinità.
Mai una soddisfazione.
Silenzio.
Forse una c’era.
Muovendo le mani con cautela frugò nelle tasche della giacca dosando il contatto con la stoffa, persino le carezze del vento tra gli strappi della divisa lo lasciavano senza fiato, « Sì! », le sigarette.
Con una pacatezza decisamente fuori luogo aprì il pacchetto, fradice.
Guardò meglio, in mezzo alla pappetta di tabacco c’era una fumosa ancora mezza intatta dal filtro fino a una metà buona che portò subito alla bocca poggiandola con cautela sulle labbra tumefatte, e spingendo con pazienza sull’accendino riuscì finalmente a dare una boccata del suo veleno.
« Hhhs-fffffffh, aaaaaaah! »
Luce, insperabilmente.
Un varco luminoso strappò all’ombra un piccolo pezzo di prato. La fonte era un lucernario che prese vita sopra la nuca del giovane esodato, il quale si accorse di aver schiantato sulla parete di una casa.
Una voce si animò all’interno delle mura alle sue spalle, una via d’uscita da questa notte maledetta penserete voi, ma al ragazzo non importava più nulla della lotta per la sopravvivenza; muscoli e tendini, dopo l’ultima ardua impresa, si erano dichiarati in sciopero, basta faticare, mai più sballottamenti o ansie o paure, per non parlare di quel foro superfluo nel piede, la voce muta, tutto quel fare la roccia giù per la collina, ogni singola parte del suo corpo lottava contro il sistema nervoso, solo gli occhi, stanchi, ancora cercavano e indagavano catalogando luci e riflessi.
La voce dentro casa non aveva mai interrotto il suo discorso, e le pupille, incuranti di quanto riportato dalle orecchie, volteggiavano nell’aria come farfalle giunte al termine del proprio ciclo vitale; staccandosi dai particolari più contingenti andavano posandosi di spigolo in ombra, in cerca di un luogo appartato dove poter spegnersi in tutta tranquillità, e più la vista si allontanava, più l’energia vitale del giovane, fuggendo la carne, la tallonava.



In fondo al tunnel di luce,
poco prima del buio,
petali gialli su cui riposare:

genziane.


[Questo racconto è stato pubblicato su   Postnarrativa ]

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